Ciao Marco,
scrivo a te, non saprei a chi altro scrivere, di cose semplici, che nessuno più ascolta; o così mi piace pensare.
"La mattina di Natale sono andato al Fiume ed ho scattato qualche fotografia con la piena e con un po' di pioggerella; non c'era gente in giro ed il tempo non invitava a starci, così decido di andare a casa a scaricare le foto e sistemarle un po'.
Nel passare davanti alla chiesa, ho pensato che un giretto avrei potuto anche farlo per salutare e rendere omaggio al Bambino ri-nato in questo giorno in tutti noi; così ho girato indietro e sono andato a posteggiare vicino al cimitero pensando di andare anche a salutare chi non più rinasce.
Non pioveva più ed ho scelto di andare prima in chiesa, così sono entrato dalla porta centale posteriore.
Ho compreso subito che era già in corso la S. Messa di Natale, così mi sono accomodato in una sedia laterale, vicino al muro, in modo da potermene uscire in sordina appena terminata la mia visita.
Da questa posizione non vedevo l'altare e non potevo salutare e omaggiare Gesù rinato, cosicchè sono andato a sistemarmi proprio nel centro della navata centrale, all'ultimo posto in fondo alla chiesa.
Sono stato coinvolto in quello che stava succedendo e, senza alcun pensiero a distrarmi, ho partecipato come non mi era mai successo, come un bambino che per la prima volta entrava in una Messa;
guardavo dappertutto e mi meravigliavo di tutto.
Mi sono accorto ad un certo punto che stavo cantando contento una canzone che da bambino si cantava sempre a Natale in chiesa e me la ricordavo pur se erano trascorsi almeno 45 anni dall'ultima volta che l'avevo cantata: "Astro del ciel, pargol divin, mite agnello redentor, etc.".
L'officiante era il prete nuovo dell'Oratorio e la messa era seguita prevalentemente dai ragazzi giovani oratoriani. Mi è piaciuto per come ha raccontato il Presepe, semplicemente, al presente.
Con esempi concreti sulle persone del paese e le loro case.
Ad un certo punto ha chiesto di inginocchiarci e chiedere qualcosa a Gesù; io non avevo la panca davanti e sono rimasto in piedi, ma stavo male, così sono andato avanti qualche metro ad inginocchiarmi su una panca e sono stato bene.
Poi ha chiesto a tutti di prendersi per mano e recitare il Padre Nostro, ha invitato le persone ad uscire dai banchi ed unirsi al centro della navata centrale della chiesa.
Io ho preso per mano due persone che si erano sedute vicino, dopo un piccolo contatto di assenso con gli occhi ed ho pregato il Padre Nostro assieme a tutti.
Un'esperienza bellissima. Non mi vengono parole per descriverla, mi sentivo un bambino, bello e candido.
Al termine della Messa il prete ha annunciato che all'uscita avremmo trovato un regalo preparato dai ragazzi dell'oratorio per tutti, di portarlo a casa e di usarlo.
Ho preso il mio regalo, una candela ed un sottocandela a forma di stella; sulla candela questa scritta: "Veniva nel mondo la luce vera...è Gesù!"
Sono uscito dalla chiesa e pioveva, sono andato alla macchina sotto l'acqua e poi a casa, ho posato il mio dono e sono andato a festeggiare il Natale.
Il pomeriggio sono tornato ed ho guardato la mia candela, l'ho accesa, l'ho posata sulla stella ed ho deciso che rimarrà sempre accesa.
Nella mia casa dove, un po' di giorni prima, era entrato il prete dell'oratorio per la benedizione di Natale; era la prima volta che lasciavo entrare la benedizione in casa mia e questo prete mi aveva fatto
una bellissima impressione.
Ora ho terminato, la mia candela è sempre accesa, il mio cuore batte ancora e mi auguro che si scaldi con il fuoco del regalo di Gesù.
Riccio, 25 Dicembre 2013
ilricciodanzante
sabato 28 dicembre 2013
giovedì 12 dicembre 2013
Sguardo del 12.12.2013
martedì 17 settembre 2013
Tre nomi per chiamare l'amore
Tre nomi per chiamare l'amore (e
l'ultima parola non è di Eros) di Vincenzo Paglia
in “Corriere della Sera” del 15
settembre 2013
In un mondo segnato così profondamente dalla paura e dalla
solitudine, e lacerato da conflitti bellici o di civiltà, l'amore resta l'unica
via per immaginare un nuovo futuro.
Si potrebbe dire: è il tempo dell'«agàpe», il tempo
dell'amore per gli altri e non solo per se stessi. Appunto, un amore «agapico».
Agàpe , una parola greca, fu scelta dagli autori del Nuovo
Testamento per descrivere l'amore di Gesù. In quel tempo non era quasi per
nulla usata poiché la cultura greca, per dire l'amore, preferiva i termini eros
e philia. Gli autori sacri con il termine agape introducevano una nuova e
impensata concezione dell'amore: un amore che non si nutre della mancanza
dell'altro (eros) e che nemmeno semplicemente si rallegra della presenza
dell'altro (philia), ma un amore, appena concepibile dalla ragione umana, che
trova il suo modello culminante in Gesù: un amore per gli altri totalmente
disinteressato, gratuito, perfino ingiustificato, perché continua ad agire — ed
è il meno che si possa dire — al di fuori d'ogni reciprocità.
È davvero un amore fuori regola, fuori norma. L'apostolo
Paolo nella Lettera ai Romani afferma:
«A stento si trova chi sia disposto a morire per un giusto;
forse ci può essere chi ha il coraggio di morire per una persona dabbene. Ma
Dio dimostra il suo amore per noi perché, mentre eravamo ancora peccatori,
Cristo è morto per noi»( Rm 5, 7-8).
Con il termine agàpe si esprime quindi un amore impensabile
per la ragione se Dio stesso non lo avesse rivelato. L'agàpe è infatti l'essere
stesso di Dio. Quindi è l'essere stesso Dio a spingerlo a uscire da sé per
scendere in mezzo agli uomini. L'incarnazione è un mistero centrale nella fede
cristiana. Essa si differenzia da tutte le altre fedi perché, più che una
religione che divinizza l'uomo, è la religione di un Dio che per amore si fa
uomo. Non solo, quest'uomo accetta anche di essere crocifisso, e per amore.
Nella «croce» appare il culmine dell'amore con la sua vittoria definitiva
sull'egoismo.
Semiòn Frank, filosofo russo, scrive: «L'idea di un Dio
disceso nel mondo, che soffre volontariamente e prende parte alle sofferenze
umane e cosmiche, l'idea di un Dio-uomo che soffre, è la sola teodicea
possibile, la sola "giustificazione" convincente di Dio». Qui vi è
tutta l'originalità dell'agàpe, tutta la sua paradossalità, e soprattutto la
sua forza irresistibile: l'agàpe è la risorsa più forte per edificare un mondo
nuovo liberato dalla legge inesorabile dell'amore per sé. (...)L'agàpe ,
culmine dell'amore, non elimina l'eros e la philia , non le accantona, se così
posso dire,semmai le purifica dalle ambiguità e le esalta per una loro dinamica
positiva. Nella cultura greca, eros era concepito come un dio senza volto, una
sorta di divinità originaria, un principio di vita potente che strappa dalla
vita quotidiana producendo una discontinuità inimmaginata nella vita di chi ne
viene coinvolto. La discontinuità si presenta improvvisa, non è né progettata
né voluta, e spinge con prepotenza l'amante ad annullarsi nell'amato, sia nella
prospettiva esaltante della luce che nell'altra, anch'essa ugualmente
esaltante, della morte. In ogni caso, al di là degli esiti, eros è una energia originaria che strappa
via dalla casa abituale, dalla vita ordinaria. Non a caso Platone, nel
Simposio , lo definisce a-oikos , senza casa. Il grande pericolo che eros fa
correre è perciò quello di essere strappati via da ogni sede, da ogni dimora,
da ogni casa, senza un approdo che sia stabile.
Da un punto di vista non teologico cristiano, eros è pura
avventura, come lo rappresentano le grandi figure, i grandi miti della
contemporaneità: l'Ulisse dantesco, il Faust, il Don Giovanni, sono tutte
figure che mollano gli ormeggi, perché che nessuna casa può contenerli. Ma eros
da solo, senza un orizzonte, non basta. In sintesi, potremmo dire, che tutti
abbiamo pulsioni d'amore, tutti sentiamo spinte ad amare o sentimenti d'amore
che ci muovono, ma — è papa Ratzinger a scriverlo nell'enciclica Deus caritas
est — «i sentimenti vanno e vengono. Il sentimento può essere una meravigliosa
scintilla iniziale, ma non è la totalità dell'amore».
La philia — che traduciamo normalmente con «amicizia» —
esprime un'altra dimensione ancora dell'amore. Ordinariamente viene pensata
come una forma attenuata dell'amore, un sentimento più debole, meno
impegnativo, meno esigente, casto per di più, segno di una innegabile
limitatezza! Molto meno cantata dell'amore, la philia è tuttavia non meno
protagonista nella vicenda umana. Un bell'esempio di philia lo rileviamo nella
triplice domanda d'amore di Gesù a Pietro dopo la risurrezione, quando lo
interroga sull'amore. Gesù chiede al discepolo: «Mi ami?» (phileis me?).
Qui non è l'eros che parla, ma un sentimento che chiede una
compartecipazione stretta, duratura, perenne. È come se gli chiedesse: «Sei
veramente mio, mi appartieni, ci co-apparteniamo?» Nella philia i due — e
questa è la differenza fondamentale con eros — rimangono tali, non vi è una
dinamica identitaria, non si risolvono in uno. I philoi sono inseparabili, ma
tale appartenenza non impedisce loro di sussistere come tali nella propria
identità. Anzi, sussistono perché «stanno bene insieme». Semmai, il rischio in
tale dinamica è l'appagamento nella coappartenenza, una sorta di piacevole ma
rischiosa chiusura.
Ed ecco l'agàpe che supera ambedue, senza tuttavia
escluderle. In effetti, con la parola agàpe si entra nella logica di stampo
trinitario ove non c'è l'annullamento nell'altro e neppure la coappartenenza.
C'è di più: la generazione di un altro nel circolo dell'amore. La raffigurazione
emblematica dell'agàpe è l'icona della Trinità di Rublev, con i tre angeli
attorno alla mensa.
Agàpe è la relazione Padre-Figlio, così come Gesù la
testimonia, che implica come terzo elemento quella relatio non adventitia di
cui parla Agostino. La relazione tra le prime due persone, infatti, distinte e
tuttavia filoi nel modo più profondo ed essenziale, obbliga a pensare la
Relazione stessa come una terza figura. L'agàpe comporta una trascendenza tra i
due che è appunto la «Relazione» stessa nella sua eternità, nella sua
necessità. L'agàpe è interna a questa dialettica dei due e insieme li trascende
entrambi. Amante e amato si trascendono in un terzo: che è la loro «relazione».
Questa è agape nel linguaggio neotestamentario e nella teologia cristiana.
Il suo nome è Spirito Santo e la sua
azione è sconvolgente.
martedì 10 settembre 2013
Biodanza: un’esperienza di incontro con l’umanità.
Biodanza: un’esperienza di incontro con l’umanità.
Iniziare a fare Biodanza significa innanzitutto decidere di partecipare ad una entusiasmante esperienza di gruppo e di umanità. Una umanità coinvolta, partecipativa, relazionale.
In Biodanza infatti, l’esperienza di gruppo è costantemente orientata verso l’incontro, la relazione, la comunicazione ed il contatto con gli altri, oltre che con sé stessi. Per tale ragione non è possibile praticare Biodanza individualmente, perché nella solitudine individuale viene a mancare la linfa vitale della relazione con l’altro.
E’ questa la principale ragione per cui il percorso di Biodanza arricchisce umanamente, fa crescere interiormente e permette a ciascuno di riappropriarsi fino in fondo del piacere di essere nel mondo e di farne parte.
Dal greco, il prefisso Bios significa Vita e la parola Danza in francese ha l’accezione di “movimento integrato”, pieno di senso. Nasce così il termine Biodanza che significa, poeticamente, “Danza della Vita”.
La proposta è: “imparare a danzare la propria vita”. La “danza” è una delle condizioni innate dell’essere umano.
Per ciascuno le prime conoscenze sono avvenute attraverso il movimento; “danza”, nel senso originario, è movimento di vita.
Si tratta di re-imparare a muoversi con musicalità, a esprimere emozioni, a comunicare meglio, a riconoscere il proprio valore e quello degli altri.
Recuperare il ritmo, l’entusiasmo, l’allegria; sentire la forza e la fiducia in se stessi; ritrovare il piacere di sciogliersi, di lasciare andare le tensioni.
Ritornare a commuoversi; provare dolcezza e percepirsi in armonia con gli altri.
La Biodanza è un’opportunità di crescita personale, piacevole, progressiva e sicura per chi desidera entrare in contatto con la sua vera identità.
E’ stata creata, negli anni ‘60 dal prof. Rolando Toro, psicologo e antropologo cileno, in seguito alle ricerche sugli effetti della musica e del movimento sulla salute, effettuate presso la Scuola di Medicina dell’Università del Cile, di cui è stato docente.
domenica 3 febbraio 2013
LA RIVOLUZIONE ORGANICA
Articolo di Giuliana Conforto del 2005.
Genio.
LA RIVOLUZIONE ORGANICA
L’essere umano ama la pace, vuole felicità, benessere, armonia, gioia, libertà. Perché finora ha ottenuto il contrario di tutto ciò che vuole? Perché è vittima di un tiranno invisibile, il suo stesso intelletto. L’intelletto crede nelle potenza delle idee, si impegna e combatte affinché queste vincano, siano elette e riconosciute dagli altri e non si rende conto che le idee non servono a cambiare il mondo. Le idee sono come gli antichi dei dell’Olimpo che litigano e non cambiano nulla, perché sono di una parte contro l’altra. La battaglia delle idee, così cara ai politici, è la palese dimostrazione della loro impotenza. Idea è qualsiasi dio, ideologia politica o anche teoria. Credere nelle idee è come essere sordi, ignorare la voce della coscienza che è l’unità e la comunione di ogni singolo individuo con il tutto. Siamo tutti parte di un Organismo Vivente che comprende terra ed umanità. L’Organismo è oggi in repentina e profonda evoluzione. La coscienza di sé serve per uscire dalla trappola dell’impotenza e diventare il protagonista di una nuova era. Gli eventi politici sono parte dell’inganno che tende a nascondere quello che sta succedendo. E’ la rivoluzione organica, la fine di un’era dominata da una luce falsa, quella elettromagnetica e l’inizio di una nuova era che svela la nostra umana immortalità ed il vincolo eterno ed indissolubile con l’intero Universo Organico, con la Forza, la Vita.Buona parte dell’umanità oggi sente verità non dette in TV; vuole pace, giustizia, trasparenza, sincerità, rispetto, libertà da qualsiasi dipendenza. Sono i prodromi della rivoluzione organica, l’evidenza che la Terra è un Essere Vivente di cui noi umani siamo in potenza cellule. I segnali sono molti. La forma della superficie che cambia, tempeste e cicloni ovunque, ghiacci che si sciolgono con rapidità crescente, il riscaldamento globale che avanza, la probabile era glaciale che si può innescare all’improvviso, il grande terremoto nel Sud-Est asiatico del quale già non si parla più. Quel terremoto ha spostato l’asse terrestre; il fatto è stato liquidato con un intervento in TV del premio Nobel C. Rubbia il quale ha spiegato che l’asse terrestre cambia in 19 anni tanto quanto è cambiato, con il terremoto, in pochi minuti e che quindi non c’era da preoccuparsi. E’ giusto non preoccuparsi, ma occuparsi e riconoscere la natura degli eventi si. Un’azione in pochi minuti non è la stessa azione che dura molti anni. I fisici sanno che l’azione coinvolge l’energia ed il tempo e che le unità di azione sono i quanti. Il terremoto è stato un salto quantico dell’asse e chi si ricorda che il tempo e cioè il giorno dipende dall’asse di rotazione o spin può capire che il salto quantico ha cambiato lo spin della Terra. Quel terremoto è stato un primo segnale dell’allineamento degli spin tra la superficie della Terra ed il suo “cuore” interno, forse il primo di una serie di eventi che sveleranno la verità: tutta la Terra è viva e composta da vari mondi intelligenti.
La Terra è viva, intelligente e sta rinascendo a nuova vita; i “disastri” come lo tsunami sono prevedibili.
La “nuova Terra” sconvolge la superficie della “vecchia”, così come un uomo nuovo sconvolge il vecchio, attaccato alle sue abitudini, a vivere nella paura della morte e a delegare la gestione del mondo a chi dice di saperlo fare. I fatti dimostrano che nessun regime “democratico” ha mai eliminato le ingiustizie, la fame e la divisione lacerante tra i pochi ricchi e i tanti poveri. Anche il Sole è in fermento e in evoluzione, come provano le sue tempeste magnetiche. La verità è che siamo alla fine di una vecchia era ed all’inizio di una nuova, in cui scompare il “potere” che ha calpestato il pianeta senza rispetto per la sua bellezza e senza riguardo per le sue risorse.
E’ l’evoluzione della coscienza umana, l’evidenza che la “realtà” cambia se cambia la coscienza del suo osservatore che partecipa alla realtà stessa. Leggi, città, nazioni, istituzioni politiche e sociali sono il risultato della concezione che l’uomo ha di se stesso. Per millenni questa concezione è rimasta invariata, divisa tra due ruoli di base, gli oppressi e gli oppressori, le vittime ed i carnefici: la Vita ci offre l’Energia per uscire da questi solchi, “obbligati” da millenni di menzogne.
Siamo tutti tutto, buoni e cattivi, deboli e forti.
Ci serve il coraggio della verità interiore, l’abbandono del falso “buonismo” che rende putride le piaghe sociali. L’umanità soffre ed il malessere cresce ovunque. A destra ed a sinistra, la politica è disorientata, spaventata degli eventi in corso; non sa che fare, cerca soluzioni all’interno della vecchia logica, pronta ad una politica di compromessi, ad indicare colpevoli ed a credersi innocente, a lottare da un lato ed a coltivare il suo orticello dall’altro. Chi ha il coraggio di riconoscere la verità e cioè che siamo tutti responsabili del vecchio mondo, imbocca la “via”, l’azione trasparente e coerente con la vera volontà comune, armonia, benessere, prosperità, amicizia.
Ogni essere umano può oggi vivere e organizzarsi in modo nuovo, realizzare i propri sogni e soddisfare i propri bisogni, accrescere la qualità della propria vita. Può liberarsi da obblighi insani che rendono infelice lui e chi lo circonda. La Vita è Energia viva, intelligente ed abbondante, a disposizione di chi La sa amare e rispettare.
L’Energia vitale oggi sta crescendo.
Perciò l’utopia oggi è possibile. L’armonia tra gli uomini può diventare reale perché ciascuno può divenire libero e cosciente di sé, se vuole; può esprimere tutte le potenzialità che la Vita gli ha dato e non solo quella piccola misera porzione che gli serve a condurre una vita di stenti, di alleanze e/o contratti infelici, non ultimo quello più comune, il matrimonio.
Un sogno? No, ciò che sta succedendo. I “potenti” del primo mondo sono sempre più isolati dalle masse e sempre più divisi tra loro; non hanno più le “certezze” di una volta, dirigono un’economia in sfacelo, insostenibile sotto molti punti di vista.
Un organismo sano si auto sostiene; è capace di procurarsi nutrienti, mezzi e strumenti necessari alla sua salute e al suo benessere. E’ evidente che il vecchio mondo è un organismo molto malato. Le sue sacche di miseria ed i suoi tanti schiavi sono i sintomi del “male” che lo affligge, la mente meccanica duale che crede alla falsa divisione tra bene e male, ai “buoni” e democratici che ci difendono ed ai “cattivi” che credono di risolvere i problemi con armi ed eserciti. La crisi è evidente, galoppante e non solo economica; è una crisi culturale profonda, un dissesto dell’ambiente naturale che i “potenti” non sanno come gestire. Il modo per rimettere in sesto l’economia del vecchio mondo è la guerra che rifocilla l’industria bellica e dà enormi profitti a pochi, fame, dolore e miseria a tanti. I “potenti” non sono affatto liberi, ma schiavi del mercato globale e delle sue industrie trainanti. Ormai lo abbiamo capito.
La disubbidienza civile è il minimo che può fare l’umanità sana, stufa di arricchire le borse dei “potenti”. Può fare ancora di più, come ad esempio ritirare i propri fondi da finanziamenti alle industrie belliche, investire su se stessi, per sviluppare quell’enorme “capitale” personale che è l’insieme delle proprie risorse e capacità, sviluppare attività che servono al benessere e alla prosperità di tutti, abbandonare quelle che creano dipendenza e sofferenza.
Il vecchio mondo è quasi sempre un furto organizzato; il più grave è il furto della fiducia in se stessi, compiuto dall’educazione che condiziona la tenera psiche dei bambini e rende impossibile la fratellanza tra gli adulti, la vera ricchezza che nessuno Impero potrebbe espropriare. La divisione tra gli uomini è la fonte di maggiore reddito per l’Impero. Serve l’unione, quella vera, che non è la difesa da un “nemico” inesistente o inventato, ma quella che nasce dalla coscienza di essere tutti parte di un unico Essere Organico Eterno.
Non è possibile il bene di pochi se non c’è quello di tutti. Solo l’intelletto lineare o mente meccanica duale può credere che il mondo può continuare così con 60 milioni di morti per fame ogni anno, sofferenze e miseria per altri miliardi e risvegliarsi a pietà solo quando uno dei nostri è colpito dai terroristi. Il consigliere scientifico di Blair è stato rimosso dal suo incarico perché ha fatto notare che il riscaldamento globale è molto più grave del terrorismo… Molti si aspettano la fine del mondo nel 2012, perché credono ai calendari Maya. Anche se fossero veri, dovremmo aggiornarci e sapere che Gesù Cristo è nato 6 anni prima dell’anno zero. Non siamo quindi nel 2005, ma nel 2011. Siamo nella fase della rivoluzione organica…
La Vita oggi interviene, rinnovando il mondo; come? Rinnovando se stessa, morendo e risorgendo dalle sue stesse ceneri, come la fenice. E’ la “renovatio mundi”, prevista da Giordano Bruno, la morte della mente umana automatica e della sua “conoscenza” falsa, e la rinascita della coscienza che sente e vive la vera natura dell’uomo e dell’universo: l’unità organica, la vera indissolubile comunione di ogni singolo essere con il tutto. E’ una rivoluzione senza precedenti per il pianeta, la rivelazione che siamo i protagonisti della storia.
La rivoluzione organica è in atto e chi ha capito che i “potenti” sono impotenti a cambiare il mondo, può partecipare… Basta rimboccarsi le maniche, operare e ricominciare da cinque… Perché cinque? Perché cinque sono i sensi finora attivati e, per la nuova era, abbiamo bisogno del sesto, coscienza di noi stessi ed azioni coerenti per soddisfare i nostri bisogni senza più sperare nell’opera pia di chi non può e non vuole dare ciò che nemmeno riesce ad immaginare… La rivoluzione organica è pacifica e pratica, basata su un’informazione sana e trasparente e non più una che agita il panico, muove a pietà, si commuove per un attimo e poi torna a fare il servo del sistema…
*Il principio di indeterminazione di Heisenberg, alla base della fisica quantica
Articolo scritto il 19 febbraio 2005
domenica 20 gennaio 2013
LA FORZA DEBOLE: L'AMORE
PROLOGO de
"La futura scienza di Giordano Bruno" di Giuliana Conforto
Giuliana Conforto, scienziata,
ricercatrice molto nota, è nata a Roma dove si è laureata in Fisica nel 1966
con una tesi in Astrofisica. Ha svolto ricerche sulla relatività e la fisica
quantica; ha anche insegnato o le università di Cosenza e dell'Aquila. Si
interessa alla filosofia ermetica, alla psicologia e all'astrologia. L'autrice
fa parte dello Scientific and Medical Network, una rete internazionale di
scienziati aperti a nuovi metodi di conoscenza. Ha già pubblicato LUH, il Gioco
Cosmico dell'Universo, e attualmente sta preparando un saggio dal titolo
Elementi di Scienza Intuitiva.
Il pianeta si sta trasformando. Giordano Bruno (1548-1600) è uno dei grandi
saggi che lo hanno previsto; quella di Bruno è scienza del futuro, coscienza
delle infinite potenzialità dell'essere umano e, soprattutto, della sua
immortalità. In sintonia con il messaggio evangelico, egli annuncia la nascita
dell'uomo nuovo, libero da tabù e paure, capace di ricevere e di riflettere
nelle sue opere l'intero messaggio vitale, oggi noto come DNA, quindi di creare
un nuovo mondo di pace e vera giustizia. Bruno rivela il grande segreto, la
magia della natura: la comunione naturale di ogni corpo con il messaggio
genetico, che fu poi il motivo vero della sua condanna, perché vanifica il
ruolo della chiesa come presunta intermediaria tra gli uomini e Dio. Bruno
rivela il ruolo centrale di protagonista dell'uomo nel Progetto cosmico,
prevede i tempi attuali e l'evento che ristabilirà "l'antico volto":
il risveglio dell'uomo alla coscienza dell'infinita e vera realtà, l'Amore.
"Viviamo in un mondo di quotidiana follia, che non risolve i problemi più semplici, non soddisfa i bisogni più elementari e non sa rispondere al quesito di fondo dell'umanità: chi sono? Ma Giordano Bruno, dotato di una percezione eccezionale, di una filosofia ante, di una sapienza illimitata e della certezza dell'eternità, svela le ragioni di tutto ciò Verrà il secolo in cui l'uomo scoprirà forze potenti nella natura", annunciava Bruno. Oggi molti conoscono la forza nucleare e i suoi potenziali effetti devastanti, ma pochi sanno che nel nucleo dell'atomo c'è un'altra forza potente, chiamata dai fisici "debole". "C'è un'unica forza che unisce infiniti mondi e li rende vivi, l'Amore" scrive Giordano Bruno. Infatti la forza debole è l'unica che lega la massa luminosa, visibile (5%), a quella oscura, invisibile (95%). La stessa forza debole dirige la fusione nucleare, nel cuore del sole e di tutte le stelle, riconosce la fisica: "debole"? "L'Amor che move il sole e le stelle" dice Dante Alighieri. L'uomo è divino. Ogni singolo cervello umano è unico, diverso ma simile a quello degli altri, con potenzialità quasi tutte inesplorate e non ancora attivate. L'uomo non ha limiti se non quelli nei quali vuole credere: l'inganno lo rende un criminale, ribelle o schiavo di un potere iniquo, di un controllo che rende tutto una merce"
"Viviamo in un mondo di quotidiana follia, che non risolve i problemi più semplici, non soddisfa i bisogni più elementari e non sa rispondere al quesito di fondo dell'umanità: chi sono? Ma Giordano Bruno, dotato di una percezione eccezionale, di una filosofia ante, di una sapienza illimitata e della certezza dell'eternità, svela le ragioni di tutto ciò Verrà il secolo in cui l'uomo scoprirà forze potenti nella natura", annunciava Bruno. Oggi molti conoscono la forza nucleare e i suoi potenziali effetti devastanti, ma pochi sanno che nel nucleo dell'atomo c'è un'altra forza potente, chiamata dai fisici "debole". "C'è un'unica forza che unisce infiniti mondi e li rende vivi, l'Amore" scrive Giordano Bruno. Infatti la forza debole è l'unica che lega la massa luminosa, visibile (5%), a quella oscura, invisibile (95%). La stessa forza debole dirige la fusione nucleare, nel cuore del sole e di tutte le stelle, riconosce la fisica: "debole"? "L'Amor che move il sole e le stelle" dice Dante Alighieri. L'uomo è divino. Ogni singolo cervello umano è unico, diverso ma simile a quello degli altri, con potenzialità quasi tutte inesplorate e non ancora attivate. L'uomo non ha limiti se non quelli nei quali vuole credere: l'inganno lo rende un criminale, ribelle o schiavo di un potere iniquo, di un controllo che rende tutto una merce"
sabato 29 dicembre 2012
dall’incontro con lui non si potrà uscire indenni
Cristo e la
spada
"Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra: sono venuto a portare non pace, ma spada!" (Matteo 10,34)
Con una simile frase, come fa san Paolo a definire Cristo «nostra pace, colui che di due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro della separazione che li divideva» (Efesini 2,14)? Subito dopo quelle parole, Gesù continuava con la stessa durezza affermando di «essere venuto a separare l’uomo da suo padre e la figlia da sua madre e la nuora da sua suocera» (Matteo 10,35). Ma non è lo stesso Gesù che, al discepolo pronto a colpire con una spada un servo del sommo sacerdote nel Getsemani, dirà senza esitazione: «Rimetti la tua spada al suo posto, perché tutti quelli che prendono la spada, di spada periranno» (26,51-52)?
È, perciò, evidente che la dichiarazione posta all’interno del cosiddetto “Discorso missionario” di Gesù, il secondo dei cinque grandi discorsi incastonati nel Vangelo di Matteo, sia da interpretare in chiave metaforica e non letterale. Quest’ultima, tra l’altro, risulterebbe in palese contrasto con il messaggio costante di Cristo che invitava il suo discepolo persino a porgere l’altra guancia a chi lo schiaffeggiava (5,39). Nella stessa linea sarà da interpretare l’episodio riferito da Luca durante l’ultima cena quando, a sorpresa, Gesù inviterà i suoi discepoli a vendere il mantello per comperare una spada. Egli intendeva in questo modo metterli in tensione: l’impero delle tenebre stava per celebrare il suo trionfo, non si poteva rimanere inerti, era necessario ingaggiare una lotta con il Male. Che l’equivoco fosse, però, in agguato appariva già in quella sera. Subito si erano fatti avanti dei discepoli a dirgli: «Signore, ecco qui due spade!». Infatti, come è attestato dallo storico giudaico filoromano Giuseppe Flavio, contemporaneo di san Paolo, era concesso di girare armati per difesa personale in alcuni territori della Palestina e anche in occasione della festa di Pasqua a causa della folla che si accalcava a Gerusalemme (così nella sua opera Antichità Giudaiche XIV,4,2; XVIII,9,2). Gesù, però, di fronte a quella risposta aveva reagito con un amaro e sconsolato: «Basta!» (Luca 22,35-38).
Qual è, allora, il significato vero dell’evocazione della spada sulle labbra di Cristo? La risposta è semplice: la scelta per il Vangelo è costosa in termini di impegno nella vita. La definizione che il vecchio Simeone, stringendo tra le braccia il neonato Gesù, gli aveva assegnato era illuminante: «Egli sarà un segno di contraddizione» (Luca 2,34). La sua presenza nel mondo non sarà neutra e incolore, la sua parola sarà come «una spada a doppio taglio che penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito » (Ebrei 4,12), dall’incontro con lui non si potrà uscire indenni, la sua proposta morale sarà molto esigente e scardinerà tanti interessi privati.
Sono molti i passi evangelici che ribadiscono il valore metaforico, ma non per questo inoffensivo, sotteso all’immagine della spada qui usata da Gesù. È, poi, suggestiva la raffigurazione del Cristo che l’Apocalisse dipinge in apertura al libro. In essa si legge che «dalla sua bocca usciva una spada affilata, a doppio taglio» (1,16), attuazione del detto isaiano secondo il quale «il soffio delle labbra (del re Messia) ucciderà l’empio» (11,4), cancellando il Male. Ed è per questo che nell’armatura simbolica del cristiano descritta da Paolo nella Lettera agli Efesini (6,11-17) c’è anche «la spada dello Spirito, che è la parola di Dio» (6,17).
"Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra: sono venuto a portare non pace, ma spada!" (Matteo 10,34)
Con una simile frase, come fa san Paolo a definire Cristo «nostra pace, colui che di due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro della separazione che li divideva» (Efesini 2,14)? Subito dopo quelle parole, Gesù continuava con la stessa durezza affermando di «essere venuto a separare l’uomo da suo padre e la figlia da sua madre e la nuora da sua suocera» (Matteo 10,35). Ma non è lo stesso Gesù che, al discepolo pronto a colpire con una spada un servo del sommo sacerdote nel Getsemani, dirà senza esitazione: «Rimetti la tua spada al suo posto, perché tutti quelli che prendono la spada, di spada periranno» (26,51-52)?
È, perciò, evidente che la dichiarazione posta all’interno del cosiddetto “Discorso missionario” di Gesù, il secondo dei cinque grandi discorsi incastonati nel Vangelo di Matteo, sia da interpretare in chiave metaforica e non letterale. Quest’ultima, tra l’altro, risulterebbe in palese contrasto con il messaggio costante di Cristo che invitava il suo discepolo persino a porgere l’altra guancia a chi lo schiaffeggiava (5,39). Nella stessa linea sarà da interpretare l’episodio riferito da Luca durante l’ultima cena quando, a sorpresa, Gesù inviterà i suoi discepoli a vendere il mantello per comperare una spada. Egli intendeva in questo modo metterli in tensione: l’impero delle tenebre stava per celebrare il suo trionfo, non si poteva rimanere inerti, era necessario ingaggiare una lotta con il Male. Che l’equivoco fosse, però, in agguato appariva già in quella sera. Subito si erano fatti avanti dei discepoli a dirgli: «Signore, ecco qui due spade!». Infatti, come è attestato dallo storico giudaico filoromano Giuseppe Flavio, contemporaneo di san Paolo, era concesso di girare armati per difesa personale in alcuni territori della Palestina e anche in occasione della festa di Pasqua a causa della folla che si accalcava a Gerusalemme (così nella sua opera Antichità Giudaiche XIV,4,2; XVIII,9,2). Gesù, però, di fronte a quella risposta aveva reagito con un amaro e sconsolato: «Basta!» (Luca 22,35-38).
Qual è, allora, il significato vero dell’evocazione della spada sulle labbra di Cristo? La risposta è semplice: la scelta per il Vangelo è costosa in termini di impegno nella vita. La definizione che il vecchio Simeone, stringendo tra le braccia il neonato Gesù, gli aveva assegnato era illuminante: «Egli sarà un segno di contraddizione» (Luca 2,34). La sua presenza nel mondo non sarà neutra e incolore, la sua parola sarà come «una spada a doppio taglio che penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito » (Ebrei 4,12), dall’incontro con lui non si potrà uscire indenni, la sua proposta morale sarà molto esigente e scardinerà tanti interessi privati.
Sono molti i passi evangelici che ribadiscono il valore metaforico, ma non per questo inoffensivo, sotteso all’immagine della spada qui usata da Gesù. È, poi, suggestiva la raffigurazione del Cristo che l’Apocalisse dipinge in apertura al libro. In essa si legge che «dalla sua bocca usciva una spada affilata, a doppio taglio» (1,16), attuazione del detto isaiano secondo il quale «il soffio delle labbra (del re Messia) ucciderà l’empio» (11,4), cancellando il Male. Ed è per questo che nell’armatura simbolica del cristiano descritta da Paolo nella Lettera agli Efesini (6,11-17) c’è anche «la spada dello Spirito, che è la parola di Dio» (6,17).
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