Tre nomi per chiamare l'amore (e
l'ultima parola non è di Eros) di Vincenzo Paglia
in “Corriere della Sera” del 15
settembre 2013
In un mondo segnato così profondamente dalla paura e dalla
solitudine, e lacerato da conflitti bellici o di civiltà, l'amore resta l'unica
via per immaginare un nuovo futuro.
Si potrebbe dire: è il tempo dell'«agàpe», il tempo
dell'amore per gli altri e non solo per se stessi. Appunto, un amore «agapico».
Agàpe , una parola greca, fu scelta dagli autori del Nuovo
Testamento per descrivere l'amore di Gesù. In quel tempo non era quasi per
nulla usata poiché la cultura greca, per dire l'amore, preferiva i termini eros
e philia. Gli autori sacri con il termine agape introducevano una nuova e
impensata concezione dell'amore: un amore che non si nutre della mancanza
dell'altro (eros) e che nemmeno semplicemente si rallegra della presenza
dell'altro (philia), ma un amore, appena concepibile dalla ragione umana, che
trova il suo modello culminante in Gesù: un amore per gli altri totalmente
disinteressato, gratuito, perfino ingiustificato, perché continua ad agire — ed
è il meno che si possa dire — al di fuori d'ogni reciprocità.
È davvero un amore fuori regola, fuori norma. L'apostolo
Paolo nella Lettera ai Romani afferma:
«A stento si trova chi sia disposto a morire per un giusto;
forse ci può essere chi ha il coraggio di morire per una persona dabbene. Ma
Dio dimostra il suo amore per noi perché, mentre eravamo ancora peccatori,
Cristo è morto per noi»( Rm 5, 7-8).
Con il termine agàpe si esprime quindi un amore impensabile
per la ragione se Dio stesso non lo avesse rivelato. L'agàpe è infatti l'essere
stesso di Dio. Quindi è l'essere stesso Dio a spingerlo a uscire da sé per
scendere in mezzo agli uomini. L'incarnazione è un mistero centrale nella fede
cristiana. Essa si differenzia da tutte le altre fedi perché, più che una
religione che divinizza l'uomo, è la religione di un Dio che per amore si fa
uomo. Non solo, quest'uomo accetta anche di essere crocifisso, e per amore.
Nella «croce» appare il culmine dell'amore con la sua vittoria definitiva
sull'egoismo.
Semiòn Frank, filosofo russo, scrive: «L'idea di un Dio
disceso nel mondo, che soffre volontariamente e prende parte alle sofferenze
umane e cosmiche, l'idea di un Dio-uomo che soffre, è la sola teodicea
possibile, la sola "giustificazione" convincente di Dio». Qui vi è
tutta l'originalità dell'agàpe, tutta la sua paradossalità, e soprattutto la
sua forza irresistibile: l'agàpe è la risorsa più forte per edificare un mondo
nuovo liberato dalla legge inesorabile dell'amore per sé. (...)L'agàpe ,
culmine dell'amore, non elimina l'eros e la philia , non le accantona, se così
posso dire,semmai le purifica dalle ambiguità e le esalta per una loro dinamica
positiva. Nella cultura greca, eros era concepito come un dio senza volto, una
sorta di divinità originaria, un principio di vita potente che strappa dalla
vita quotidiana producendo una discontinuità inimmaginata nella vita di chi ne
viene coinvolto. La discontinuità si presenta improvvisa, non è né progettata
né voluta, e spinge con prepotenza l'amante ad annullarsi nell'amato, sia nella
prospettiva esaltante della luce che nell'altra, anch'essa ugualmente
esaltante, della morte. In ogni caso, al di là degli esiti, eros è una energia originaria che strappa
via dalla casa abituale, dalla vita ordinaria. Non a caso Platone, nel
Simposio , lo definisce a-oikos , senza casa. Il grande pericolo che eros fa
correre è perciò quello di essere strappati via da ogni sede, da ogni dimora,
da ogni casa, senza un approdo che sia stabile.
Da un punto di vista non teologico cristiano, eros è pura
avventura, come lo rappresentano le grandi figure, i grandi miti della
contemporaneità: l'Ulisse dantesco, il Faust, il Don Giovanni, sono tutte
figure che mollano gli ormeggi, perché che nessuna casa può contenerli. Ma eros
da solo, senza un orizzonte, non basta. In sintesi, potremmo dire, che tutti
abbiamo pulsioni d'amore, tutti sentiamo spinte ad amare o sentimenti d'amore
che ci muovono, ma — è papa Ratzinger a scriverlo nell'enciclica Deus caritas
est — «i sentimenti vanno e vengono. Il sentimento può essere una meravigliosa
scintilla iniziale, ma non è la totalità dell'amore».
La philia — che traduciamo normalmente con «amicizia» —
esprime un'altra dimensione ancora dell'amore. Ordinariamente viene pensata
come una forma attenuata dell'amore, un sentimento più debole, meno
impegnativo, meno esigente, casto per di più, segno di una innegabile
limitatezza! Molto meno cantata dell'amore, la philia è tuttavia non meno
protagonista nella vicenda umana. Un bell'esempio di philia lo rileviamo nella
triplice domanda d'amore di Gesù a Pietro dopo la risurrezione, quando lo
interroga sull'amore. Gesù chiede al discepolo: «Mi ami?» (phileis me?).
Qui non è l'eros che parla, ma un sentimento che chiede una
compartecipazione stretta, duratura, perenne. È come se gli chiedesse: «Sei
veramente mio, mi appartieni, ci co-apparteniamo?» Nella philia i due — e
questa è la differenza fondamentale con eros — rimangono tali, non vi è una
dinamica identitaria, non si risolvono in uno. I philoi sono inseparabili, ma
tale appartenenza non impedisce loro di sussistere come tali nella propria
identità. Anzi, sussistono perché «stanno bene insieme». Semmai, il rischio in
tale dinamica è l'appagamento nella coappartenenza, una sorta di piacevole ma
rischiosa chiusura.
Ed ecco l'agàpe che supera ambedue, senza tuttavia
escluderle. In effetti, con la parola agàpe si entra nella logica di stampo
trinitario ove non c'è l'annullamento nell'altro e neppure la coappartenenza.
C'è di più: la generazione di un altro nel circolo dell'amore. La raffigurazione
emblematica dell'agàpe è l'icona della Trinità di Rublev, con i tre angeli
attorno alla mensa.
Agàpe è la relazione Padre-Figlio, così come Gesù la
testimonia, che implica come terzo elemento quella relatio non adventitia di
cui parla Agostino. La relazione tra le prime due persone, infatti, distinte e
tuttavia filoi nel modo più profondo ed essenziale, obbliga a pensare la
Relazione stessa come una terza figura. L'agàpe comporta una trascendenza tra i
due che è appunto la «Relazione» stessa nella sua eternità, nella sua
necessità. L'agàpe è interna a questa dialettica dei due e insieme li trascende
entrambi. Amante e amato si trascendono in un terzo: che è la loro «relazione».
Questa è agape nel linguaggio neotestamentario e nella teologia cristiana.
Il suo nome è Spirito Santo e la sua
azione è sconvolgente.
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